Filippesi 2:6
Il passo in questione è un tipico esempio in cui la traduzione migliore deve obbligatoriamente tenere conto del contesto. Senza il contesto, infatti, si possono fare due o più traduzioni grammaticalmente corrette ma di significato opposto. Considereremo le due lezioni piu' comuni, ma proporremo anche una terza che, in parte, media fra le due.
Il passo in greco traslitterato e tradotto parola per parola recita:
‘ος ’εν μορφη θεου ‘υπαρχων ’ουχ ‘αρπαγμον ‘ηγησατο το ’ειναι ’ισα θεω
hos en morfêi theou huparchôn ouch harpagmon hêgêsato to einai isa theô
che in forma di dio esistente non un ghermire-to? considerò l’ essere come dio
La traduzione prevalente di questo passo è resa così:
CEI
"il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio"
LUZZI
"il quale, essendo in forma di Dio non riputò rapina l'essere uguale a Dio"
N. RIVEDUTA
"il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente"
Traducendo in questo modo è evidente che l’oggetto che Gesù non prese in considerazione era l’uguaglianza con Dio che aveva, non la considerò irrinunciabile (CEI-N. RIVEDUTA); per la LUZZI, addirittura, non considerò che questo fosse una rapina, quindi, qualcosa che gli spettava di diritto.
Una traduzione meno comune (ne esamineremo i motivi) è la seguente:
TNM
"il quale, benché esistesse nella forma di Dio, non prese in considerazione una rapina, cioè che dovesse essere uguale a Dio"
A titolo informativo riportiamo a seguito altre traduzioni bibliche che rendono il versetto in modo pressoché identico:
"il quale, essendo nella forma di Dio, non considerò l’uguaglianza con Dio come una cosa da afferrare". The New Testament, di G. R. Noyes.
"Egli — vera natura divina! — non si fece mai uguale a Dio confidando in se stesso". Das Neue Testament, ed. riveduta, di Friedrich Pfäfflin.
"il quale, pur essendo in forma di Dio, non ritenne come cosa da far propria avidamente l’essere uguale a Dio". La Bibbia Concordata.
"Egli ebbe sempre la natura di Dio, ma non pensò di dover cercare con la forza di divenire uguale a Dio". Today’s English Version.
"Il quale, essendo in forma di Dio, non considerò l’uguaglianza con Dio qualcosa da afferrare". The New Jerusalem Bible.
E’ del tutto evidente che in quest’ultimo modo il senso cambia. Ora, ciò che Gesù non prese in considerazione è di diventare come Dio, per lui far questo sarebbe stato un’azione avida, una rapina.
Siamo di nuovo di fronte ad un passo dove l’intendimento biblico del traduttore decide la traduzione da farsi. Ma notate un fatto.
E’ del tutto prevedibile che le traduzioni confessionali menzionate per prime rendano il passo in senso "trinitario", ovvero facendo Gesù uguale a Dio, e che la TNM lo renda in modo "non trinitario" mostrando Gesù che non prova neppure ad essere uguale a Dio. Assai meno prevedibile è la versione delle ultime cinque traduzioni, prodotte anch’esse da studiosi trinitari. Il fatto che anche loro rendano il passo in modo "non trinitario" conferma la possibilità di tradurre in piu' modi, e la necessità di cercare una versione fedele sia al greco che al contesto.
Ma procediamo con ordine.
Durante la trattazione della scrittura in questione prenderemo in considerazione i seguenti aspetti:
Una trattazione completa della semantica di questa frase richiederebbe la spiegazione dei significati della parola "theos" (dio) nelle scritture greche. Per non esulare dal contesto, rinviamo il lettore ad uno specifico articolo. In questo caso la parola più importante è "forma". Paolo non ha dubbi che Gesù era o aveva la "forma di Dio" che la CEI traduce erroneamente con "natura divina" come se ci fosse scritto "thèias fyseos" (2 Pt. 1:4).
"Morphè – forma" si riferisce non alla natura bensì all’aspetto, all’estetica del soggetto, a come appare.
Ebbene, Gesù prima di venire sulla terra era un abitante del cielo ed era corporalmente formato per essere nel cielo dove dimora Dio Padre e tutte le creature angeliche, chiamate anch’esse nella Bibbia "dei"(Sal. 8:5).
Perciò Gesù, prima di venire sulla terra poteva giustamente esistere nella "forma" di Dio o di "un dio" in senso biblico, dato che questo vocabolo ("theos") non è appannaggio dell’Onnipotente né nell'AT né nel NT. Nulla indica forzatamente che questa condizione fossse un’uguaglianza con Dio Padre in essenza o sostanza; cio' che avevano in comune era unicamente la "morphè". Questo intendimento è ulteriormente rafforzato da cio' che verrà scritto subito, parlando dell'oggetto che Gesù "non considerò" o "non ritenne", vale a dire "to einai isa theô", l’essere come/uguale a Dio.
E’ indubbio che il verbo "harpàso" da cui deriva "harpagmon" significa : derubare con violenza, ghermire, sottrarre velocemente, rapire, portar via.
Nel NT è sempre usato con questo senso nelle altre 13 volte in cui compare, cioè in Matteo 11:12; Matteo 12:29;Matteo 13:19; Giovanni 6:15; Giovanni 10:12; Giovanni 10:28; Giovanni 10:29; Atti 8:39; Atti 23:10; 1 Tessalonicesi 4:17; Ebrei 10:34; Giuda 23; Apocalisse 12:5.
Per avvalorare la traduzione "trinitaria" deve essere necessario che "harpagmon" significhi tener stretto gelosamente, come qualcosa che si ha ma non si vuole cedere, ma così non è in nessun caso nel NT! A meno che Fil.2:6 sia l’unico caso su 14 esistenti….
Per completezza bisogna dire che alcuni lessici inseriscono in effetti fra le definizioni di "harpagmon" quello di "tener stretto gelosamente, trattenere". Si noti però che è sempre riportata come una definizione secondaria e non priva di dubbi.
Non si trova con certezza nessuna interpretazione di "harpagmon" in questo senso passivo se non nel IV° sec. nelle Omelie di Crisostomo. Pare evidente quindi che il significato passivo di "tener stretto una cosa che si ha" è posteriore al tempo di Paolo e questo fatto non può essere ignorato dal traduttore o dal lettore.
Ma prima di determinare qual è la versione corretta di Fil. 2:6 (lasciamo comunque al lettore il compito di trarre le conclusioni), consideriamo qui entrambi i significati e passiamo ad esaminare l’ultima parte del versetto.
Siamo al termine del versetto. Abbiamo già parlato della "forma di dio" e di "harpagmon"; il senso da dare a quest’ultima parte dipende dal senso che abbiamo dato alle prime due, ma anche e soprattutto dal senso del discorso che Paolo sta facendo ai filippesi.
La traduzione trinitaria vorrebbe che "l’uguaglianza con Dio" qui menzionata corrisponda esattamente alla "forma di Dio" dell’inizio del versetto. Seguite la dinamica del ragionamento, reso con parole nostre:
"dato che Gesù era già come Dio, non pensò che questa sua uguaglianza con Dio fosse qualcosa di irrinunciabile a cui aggrapparsi gelosamente".
Tuttavia abbiamo già spiegato che la "morphè theou" (forma di dio) non esprime l’intero "essere Dio" ma solo una parte, quella corporale-estetica. La "morphè theou" di Gesù non può essere una uguaglianza di tipo trinitario a Dio Padre così come non vi è uguaglianza totale tra un padre umano e il suo piccolo bambino benché entrambi siano uguali nella "morphè" umana; è solo ovvio che i due sono uguali sotto alcuni aspetti ma sono molto diversi su altri piani di paragone ad esempio quello dell’età, della forza, della conoscenza e dell’autorità, per menzionarne solo alcuni.
La traduzione non trinitaria invece intende la frase "l’essere come dio" un obbiettivo errato che Gesù non cercò di far suo come invece cercò di fare Adamo nel racconto della Genesi. In questo modo il passo direbbe quanto segue:
"E’ vero che Gesù esisteva in una forma divina ma, nonostante questo, non cercò in nessun modo di usurpare la posizione di Dio volendo essere come Lui. Piuttosto, vuoto' se stesso e prese la forma di uno schiavo."
Gesu' diventa in questo modo un eccellente esempio di umiltà.
Quale delle due è la versione da preferire? E qual è la terza versione che abbiamo menzionato all’inizio della pagina?
Per rispondere alle domande dobbiamo trattare l’ultimo punto.
Nel capitolo 2 della lettera ai filippesi Paolo mostra ai suoi lettori come essere si mente umile e modesta a imitazione di Cristo. Nei versetti appena precedenti al sesto troviamo questo excursus :
"Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù," (CEI).
A questo punto descrive il comportamento di Gesù che i cristiani devono imitare con le parole del v. 6 che stiamo considerando. Eccoci giunti al punto cruciale. Quale comportamento umile e modesto di Gesù Paolo ora sta per sottolineare?
Una versione propone "per lui essere come Dio non era una rapina" (LUZZI).
Evidentemente questa conclusione non appare coerente con l’umiltà e la modestia che Paolo sta insegnando.
Qualcuno potrà affermare che occorre leggere anche il v. 7 per cominciare a vedere la lezione di umiltà che Gesù diede…"ma spogliò se stesso e prese la forma di uno schiavo..". Benchè questo rafforza e aggiunge ulteriori motivi per illustrare l’umiltà di Gesù, la sintassi e la dinamica del v. 6 richiede assolutamente che l’umiltà di Gesù si debba vedere soprattutto nella descrizione di ciò che lui "non prese in considerazione" nel v. 6. Questa nostra lettura è pure suffragata sia dalla suddivisione del brano in v. 6 e v. 7 che dalla punteggiatura usata da tutti i traduttori.
Qualcuno potrà ancora osservare che la LUZZI sbaglia nel rendere così il pensiero di Paolo, però la CEI e altre insegnano che l’umiltà di Gesù si vede nel v.6 dal fatto che lui non considerò irrinunciabile la sua uguaglianza con Dio, dando ad "harpagmon" il secondario significato passivo di "ritenere gelosamente una cosa che si ha". E' una posizione sostenibile solamente se l’uguaglianza con Dio dopo "harpagmon" sia esattamente equivalente alla "forma di Dio" che appare prima nel versetto. Il senso di una simile interpretazione era:
"dato che Gesù era già come Dio, non pensò che questa sua uguaglianza con Dio fosse qualcosa a cui non rinunciare o a cui aggrapparsi gelosamente".
Notate la necessaria equivalenza fra ciò che Gesù era e ciò che non considerava irrinunciabile? Ma questa equivalenza, nel caso esistesse, renderebbe necessaria una versione in parte mediatrice fra le due fin’ora trattate.
La terza versione, che comunque non riteniamo sia da preferire in assoluto, cerca di considerare come giusto il significato di "harpagmon" nel senso passivo, cioè "ritenere gelosamente", come alcuni lessici registrano e molti traduttori preferiscono. Consideriamo la lezione "ritenere gelosamente".
In tal caso è necessario qualificare "
το ’ειναι ’ισα θεω" (l’essere come dio) esattamente come "’εν μορφη θεου" (in forma di dio). E’ l’unico modo, crediamo, in cui le parole di Paolo possono avere un significato in armonia con il contesto, sempre se si vuole mantenere per forza il senso passivo di "harpagmon" . In questo modo ciò che Paolo sta dicendo suonerebbe come:"dovete avere lo stesso atteggiamento di Gesù, il quale, pur essendo in forma divina, come un dio, non pensò che fosse irrinunciabile il suo essere come tale anzi, vuoto' se stesso e prese la forma di uno schiavo".
Abbiamo dovuto fare una parafrasi per mostrarvi in modo più libero quello che senza dubbio era lo scopo del ragionamento di Paolo, non vi pare?
Avete notato? Paolo comincia verosimilmente dal punto più alto della condizione di Gesù, la forma di dio ("morphè theou") per arrivare al punto più basso che scelse di raggiungere, la forma di uno schiavo ("morphè doulou").
Considerato che non era parte del ragionamento, nè era richiesto dal discorso, perché mettersi a fare nel mezzo un escursione sull’uguaglianza di tipo trinitaria fra Gesù e Dio?
Non riteniamo infatti impossibile che Paolo abbia usato "isa theo" come sinonimo di "morphè theou". I sinonimi, si sa, non sono sempre perfettamente speculari, ma all’interno del contesto può essere ben chiaro all’ascoltatore che si è voluto usare un’espressione equivalente. Come si sarebbe dovuto esprimere Paolo? Dicendo forse "benché fosse in forma di dio non considerò irrinunciabile l’essere in forma di dio ma anzi, vuotò se stesso e prese la forma di uno schiavo"? Avrebbe dovuto ripetere tre volte di fila "forma di"…
E’ vero che "isa" esprime principalmente il significato di "uguale" ma in determinati contesti può essere reso "come", senza che ciò sia una dichiarazione di uguaglianza totale, come alcuni vorrebbero fosse. Un esempio è riportato in Matteo 20:12 :.."li hai trattati come noi.."("
isous"- CEI)In questo modo si soddisfa chi vuol vedere "harpagmòn" in senso passivo ma non rende Gesù uguale a Dio nel senso voluto dai trinitari. Così Gesù considera cosa rinunciabile non la sua uguaglianza con Dio in senso totale, ma la sua "morphè theou" (forma di dio), ovvero il suo status di persona spirituale abitante dei cieli, come Dio.
- CONCLUSIONE -
L'esame del contesto in cui è posto il versetto di Filippesi 2:6 fa ritenere molto difficile credere che Gesù "non ritenne fosse una rapina essere uguale a Dio", come sostenuto dalla LUZZI.
E' estremamente improbabile dare ad "harpagmon" un senso passivo, come vorrebbero molti traduttori se si osserva come viene usato tutte le altre volte nel NT e si considera che fino al IV° sec. non lo si usa mai in questo modo.
Per mantenere questo significato passivo di "harpagmon" è necessario rendere sinonimi la "forma di Dio" con "l’uguaglianza con Dio", come nella traduzione CEI, il che non rende comunque Gesù uguale al Padre nel senso voluto dalla teologia trinitaria.
Per concludere tutte le precedenti osservazioni notiamo che, ancora una volta, i critici della TNM non hanno nessuna obiezione sensata da porre ai traduttori della medesima. Il lettore dovrebbero piuttosto interrogarsi con serietà sulle ragioni per cui molte versioni traducono Flp. 2:6 in modo da far sembrare Gesù e il Padre uguali, all'interno di un brano dove Paolo sta insegnando l’umiltà e la sottomissione di Gesù stesso!
La cronistoria di una fatto accaduto in Francia nel 1971 fornirà ulteriori indicazioni.
Tratto dalla rivista "La Torre di Guardia" del 1 Dicembre 1971
Disputa
in Francia nella Domenica delle Palme"CRISTO è Dio e non un’immagine!" La voce amplificata echeggiò sotto gli archi gotici della cattedrale parigina di Notre Dame, coprendo momentaneamente la lettura dell’"Epistola". Circa duemila cattolici presenti si erano appena ripresi dalla sorpresa quando udirono cantare in latino il Credo degli Apostoli. Questo canto di protesta fu subito superato dal potente organo. A ciò i dimostranti se ne andarono e la messa continuò.
Simili dimostrazioni ebbero luogo in altre chiese di Parigi alle messe celebrate il sabato e la Domenica delle Palme, il 4 aprile 1971. I dimostranti non erano protestanti o atei ma cattolici tradizionalisti! Ma perché protestarono?
Si trattava della lettura dell’"Epistola" nel vernacolo, in francese. Come qualsiasi cattolico praticante sa, l’"Epistola" letta durante la messa la Domenica delle Palme è Filippesi 2:5-11. Nel lezionario francese del 1959 Filippesi 2:6 diceva: "Essendo di condizione divina, Cristo non si aggrappò avidamente al rango che lo rendeva uguale a Dio". Ma nel 1969, i vescovi di lingua francese autorizzarono la pubblicazione di un nuovo lezionario approvato il 16 settembre 1969 dalla Santa Sede a Roma. In esso Filippesi 2:6 fu reso così: "Cristo Gesù è l’immagine di Dio; ma non scelse di afferrare con la forza l’uguaglianza con Dio".
Un noto studioso cattolico francese, André Feuillet, scrisse: "Questa versione . . . suscitò aspre critiche da ogni parte. Non avrebbe indotto i fedeli a credere che Cristo non è Dio nel senso più stretto della parola?" (Esprit et Vie, 17 dicembre 1970) Ah, ecco il problema!
Fu esercitata pressione sulla gerarchia francese, che acconsentì a rivedere questa seconda traduzione di Filippesi 2:6. Comunque, quando si seppe che questa terza traduzione di Filippesi 2:6 non era più trinitaria della seconda versione e che sarebbe stata letta in tutte le chiese la Domenica delle Palme, il 4 aprile 1971, i cattolici tradizionalisti reagirono con violenza.
La rivista mensile cattolica Itinéraires pubblicò uno speciale supplemento in data gennaio 1971. Riferendosi alla seconda traduzione di Filippesi 2:6, Itinéraires dichiarò: "Se egli [Cristo] rifiutò di afferrarla [l’uguaglianza con Dio], doveva essere perché non la possedeva ancora". E, commentando la terza versione, questa rivista disse che se Cristo "non scelse di asserire che era lo stesso che Dio", ciò sottintende che non era "lo stesso che Dio". Con ciò è d’accordo la New American Bible, edizione cattolica del 1970, che dice: "Egli non ritenne che l’uguaglianza con Dio fosse qualche cosa da afferrare". Secondo la veduta di Itinéraires, "l’effetto pratico di questa sostituzione equivale a eresia e bestemmia". Essa incoraggiava i lettori a dimostrare la loro disapprovazione durante le messe celebrate la Domenica delle Palme, invitandoli ad aspettare la lettura dell’"Epistola" e poi gridare "Bestemmia!", "Gesù Cristo vero Dio e vero uomo", o a cantare il Credo degli Apostoli.
Nonostante queste minacce, l’episcopato francese si attenne alla sua terza traduzione di Filippesi 2:6. Le Monde (21-22 marzo 1971) commentò: "Questa traduzione . . . fu accettata dall’intero corpo dei vescovi di lingua francese. Il Consiglio Permanente dell’Episcopato Francese, che si è appena riunito a Parigi, l’ha ratificata; quindi resterà". Comunque, per evitare agitazioni durante la messa della Domenica delle Palme, parecchi vescovi permisero ai sacerdoti delle loro diocesi di usare la traduzione del 1959. Nonostante questa concessione, nella cattedrale di Parigi e anche in quella di Lione ci furono dimostrazioni.
IL DILEMMA DEI VESCOVI FRANCESI
Abbastanza stranamente, questi dimostranti tradizionalisti cercavano d’essere cattolici migliori dei vescovi e dei cardinali di lingua francese! Come buoni cattolici essi credono alla dottrina della Trinità, la quale insegna che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono uguali nella Divinità. Furono profondamente scossi da una traduzione di Filippesi 2:6 approvata dalla gerarchia nella quale è indicato che Cristo non ha mai asserito d’essere "lo stesso che Dio". Avevano ragione a dire che questa traduzione nega che Cristo è Dio. Ma trascurarono il fatto che Cristo stesso lo negò, parlando del Padre suo come del "solo vero Dio". (Giov. 17:3, Garofalo) Egli non insegnò la dottrina della Trinità.
L’interessante domanda è: Perché l’alto clero di lingua francese si sentì obbligato ad autorizzare una traduzione che nega così ovviamente una delle basilari dottrine del cattolicesimo? Ma questo non è tutto. Non è assai strano che questi prelati ritenessero necessario far fare una nuova traduzione di questo passo? Che dire di tutte le Bibbie cattoliche debitamente munite di nihil obstat e di imprimatur? Che dire della Jerusalem Bible, della Crampon Bible, della Liénart Bible, della Maredsous Bible, della Glaire Bible, dell’Osty New Testament, della Saci Bible e di altre ancora, tutte traduzioni cattoliche francesi ufficialmente riconosciute? Perché fare una nuova traduzione quando tutte queste Bibbie rendono questo passo in modo che sembri che Cristo fosse uguale a Dio, come le traduzioni cattoliche italiane, quali La Sacra Bibbia di Fulvio Nardoni e La Sacra Bibbia a cura di mons. Salvatore Garofalo?
Questo mistero è chiarito dalla seguente osservazione stampata in Le Monde (6 aprile 1971): "Gli studiosi che hanno fatto questo cambiamento — cambiamento ratificato dalla maggioranza dei vescovi francesi — considerano la nuova traduzione più fedele al testo greco della precedente [il corsivo è nostro]".
Ora i cardinali, gli arcivescovi e i vescovi cattolici di lingua francese si trovano dunque sui corni di un dilemma. O si smentiscono, ritirando la loro nuova traduzione di Filippesi 2:6, nel qual caso mostreranno d’essere più attaccati alla dottrina della Trinità che all’accurata traduzione della Bibbia, o mantengono la loro nuova versione ufficiale di questo importante passo, a costo di ammettere che le Bibbie cattoliche francesi (per non parlare di quelle in altre lingue) hanno erratamente tradotto questa scrittura dandole un’interpretazione trinitaria.